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La vita d'inferno dello studente giapponese... o forse no

Magari mi sbaglio.
Non ho figli e questo mi da uno svantaggio sull'analisi della reale situazione, poiché è semplice argomentare, per i genitori, con un "ma tu non sai, tu non la vivi in prima persona", ma allo stesso tempo, proprio questo distacco emotivo e privo dei sentimenti prettamente tipici della preoccupazione da genitore (per carità, una cosa più che buona e giusta) credo che mi dia un vantaggio: posso osservare senza alcun tipo di contaminazione, aspettativa e senza il peso di avvenimenti unici e legati alla vita personale di uno studente.

 

 

 

Abito proprio accanto ad una scuola.

No, sarebbe più corretto dire che abito circondato da una scuola: un grande ed importante complesso d'istruzione, tra i più importanti di Kyoto, che comprende un asilo, scuola elementare, media, superiore e perfino una Università.

I diversi edifici distribuiti per tutto il quartiere: in pratica sono costantemente circondato da studenti, di ogni età e fase della loro giovane vita.

Così, ogni giorno, mi capita di sentirli mentre si allenano durante le ore dedicate agli sport, di vederli correre attorno al grande Tempio Buddhista che patrocina queste scuole, di sentire il loro vociare, di trovarli al conbini intenti a svaligiarlo (e lasciarmi senza merenda).

Li vedo quando si allontanano da scuola: le neonate coppiette che si tengono timidamente per mano (qualcuno ha detto che le coppie giapponesi non si tengono per la mano?) mentre si dirigono verso la fermata del bus.

Li vedo quando si affrettano per l'inizio delle lezioni, con le facce assonnate, soffiandosi sulle mani per riscaldarle, gelate a causa del freddo invernale.

Li vedo quando, finite le lezioni, si salutano, si danno appuntamento al giorno dopo oppure, in piccoli gruppi (rigorosamente divisi per sesso) si allontanano, ridendo e scherzando, per andare a divertirsi da qualche parte.

I studenti bambini che si dirigono spediti e con completa attenzione ai pericoli della strada verso casa, i giovanissimi che si radunano in cerchio per giocare e scambiarsi opinioni su quello che hanno installato sul loro iPhone, le giovani con le gonne sempre più corte e gli universitari, impegnati e seri.

Un elemento di colore, suoni della gioventù allegra e della speranza per il futuro, che mi circondano quotidianamente.

 

Ed è così che mi tornano in mente parole, lette ed ascoltate, sulla vita degli studenti: l'ijime, il bullismo scolastico (e, in realtà, non solo), i terribili esami, le difficoltà e le pressioni del periodo scolastico.

Ho letto descrizioni di questo periodo come "il peggiore della vita di un giapponese".

Ho sentito voci dire che è un periodo di totale disperazione e stress, che lascia segni indelebili nella vita di chi vi sopravvive.

Come spesso accade ho letto e sentito molte voci sull´argomento.

Eppure mi trovo e ritrovo ad osservarli.

Qualche giorno fa prendo la decisione di guardarli con maggiore attenzione, di provare a leggere sui loro volti e tramite i loro gesti, le loro emozioni: di capire la loro vita.

 

È inverno, in questi giorni non ha nevicato ma il freddo è pungente e, soprattutto la mattina, quando tira un po' di vento, ti senti dolere il viso e le mani, scoperti, mentre cammini.

Alcuni arrivano prestissimo: si fermano alla fermata del bus, si incontrano con i compagni davanti al cancello della scuola oppure nel parco del Tempio.

A volte ne vedi un paio intenti nella preghiera, più spesso si radunano al conbini, dentro o fuori.

I loro visi parlano della nostalgia per il caldo letto che hanno dovuto abbandonare e raramente mostrano gioia o energia, ma come biasimarli? Immagino la mia faccia in quel momento e dubito che sia molto diversa... qualche decina di anni più vecchia ma decisamente assonnata e desiderosa di tornare nel morbido abbraccio del sonno.

Poi, inaspettatamente, arriva una prima ondata di energia: qualcuno ha una buona notizia, un paio di amiche hanno dei nuovi pettegolezzi amorosi da raccontare, ritorna il compagno che era stato ammalato.

 

La mattina si inizia a scaldare, i raggi del sole stendono un morbido e caldo velo dorato sulle scure tegole del Tempio e si sente allegria nell'aria: gli studenti si stanno svegliando, sorrisi che nascono assieme al giorno e contagiosi si spargono di volto in volto.

Qualcuno ha ancora l'aria cupa e si introduce nell'edificio scolastico, trascinando il pesante zaino o la borsa, lo sguardo vuoto puntato verso il suolo mentre avanza, come se andasse incontro al proprio patibolo, ma in generale l'aria è ora satura del vociare allegro degli studenti, il fanciullesco  riso dei giovani e le vibranti chiacchiere degli universitari.

 

Quando ho un giorno libero da lavoro e mi concedo qualche oretta extra nel delicato abbraccio delle coperte, posso sentire la potenza dei loro "ganbaré" (quando noi italiani diciamo "buona fortuna", i giapponesi usano dire "ganbaré"... strutturalmente è il verbo "impegnarsi" nella forma imperativa, quindi traducibile con "impegnati!"... e questo dovrebbe già spiegare tante cose, di per sé) durante le prove sportive dei club.

 

Intanto gli universitari, più tranquilli, entrano ed escono, da soli o in gruppi (questa volta non sempre divisi per sesso), dalla sede. Vanno nei vicini cafè, si siedono tranquillamente in biblioteca, leggono o scrivono, sempre con una mano sull'iPhone, pronti a rispondere al richiamo della vibrazione che indica una qualsiasi attività nell'inarrestabile mondo virtuale che tutti connette e interseca.

A pranzo alcuni di loro si fermano nel bel locale adiacente all'istituto, dove viene effettuato il servizio mensa e che sembra quasi un ristorante francese, più che una comune mensa universitaria. Alcuni vi rimangono fino alla chiusura, chi studiando e chi chiacchierando.

Non sono scansafatiche, come spesso sono stati disegnati: non ne vedo a ciondolare in giro, non mi sembrano pigri nei loro movimenti o così concentrati sul divertimento piuttosto che nello studio.

Hanno sempre zaini e borse piene di libri, quaderni e fogli sparsi di appunti. Discutono di esami e materie inerenti i loro campi di studio, si scambiano appuntamenti per questa o quella ricerca.

Rimangono per tutto il giorno nei dintorni, alternando visite all'interno dell'Università con altrettanti luoghi all'esterno o nei dintorni.

 

E, infine, tranquillamente giunge la sera: sono le 4:00 quando alcuni studenti lasciano gli edifici scolastici, mentre le ombre che preannunciano la notte li accolgono, alla fine delle loro fatiche quotidiane.

È come una marea, tutti portano gli stessi colori per cui è davvero come venir circondati da un piccolo, tranquillo, fiume senza meta.

Il loro passo ora è più stanco, certamente, ma non lo sono i loro volti, sorridenti, mentre si dirigono in qualsiasi direzione: li ritrovo spesso nei centri commerciali, nei negozi, nelle sale giochi, nelle fumetterie oppure semplicemente a passeggiare.

Alcuni di loro si dirigono verso dei centri che fungono da doposcuola e vi si immergono, diligentemente.

Alcune ragazzine si fanno le purikura, le famose foto scattate tramite macchinette automatiche, in piccolo formato, con i volti abbelliti da piccoli effetti di trucco: in seguito rideranno imbarazzate di quelle uscite male, si divideranno quelle uscite bene, alcune di queste finiranno attaccate sull'interno della cover del prezioso e immancabile iPhone.

La loro energia e allegria, dopo esser filtrata lentamente dalle porte dei vari istituti scolastici del mio quartiere, si è ora diffusa a macchia d'olio per tutta la città, aggiungendo colore (uno solo, perché la divisa, bene o male, a me sembra sempre quella) alla già pulsante e romantica vita di Kyoto.

E quando il giorno muore e il manto delle stelle notturne copre di silenzio e meritato riposo la città, anche gli studenti svaniscono, lasciando solo tracce elettriche della loro vitalità, un'energia che, col tornare del sole, tornerà anch´essa.

 

Poi, ieri, senza preavviso, un piccolo gruppetto di studentesse mi ferma per strada. Stanno studiando inglese e hanno ricevuto un compito da portare a termine: devono realizzare delle mini-interviste a degli stranieri, in inglese appunto, con delle domande prestabilite.
Così loro intervistano me (mi vogliano perdonare ancora per il mio pessimo inglese) e io colgo l'occasione per intervistare loro.

 

Sto attraversando la lunga via carica di negozietti, per lo più di spuntini, che discende dal famoso Padiglione d´Oro, il Kinkakuji, quando noto l'allegro vociare di alcune studentesse, sorridenti e spensierate. Sono tre ragazzine e portano una divisa scolastica che non mi pare di riconoscere al volo; completamente assente in loro il senso di paura o sfiducia verso lo straniero, mi si avvicinano, salutandomi in inglese: si presentano come studentesse di Osaka e mi chiedono se possono essere da loro intervistato per soli 5 minuti.

Rispondo inizialmente loro in giapponese, per scusarmi del mio livello di conoscenza della lingua inglese ma, vedendo sui loro volti nascere la delusione (in effetti non si vedeva uno straniero in giro fin dove lo sguardo riusciva a posarsi, cosa che avrà reso assai ardua la loro ricerca scolastica), mi affretto ad aggiungere che, se si accontentano del mio pessimo inglese, mi sarei prestato volentieri ad aiutarle.

Tornate allegre mi fanno una manciata di brevi domande ("Da dove vieni? Ti piace il Giappone? Quanto a lungo ti fermerai?" e altre domande del genere) a cui rispondo volentieri, anche se magari non erano proprio le risposte che si aspettavano o, comunque, le migliori per la loro ricerca.

Al sentire che sono italiano, una di loro, subito, si affretta a dirmi un timido "ciao" e subito, come mi aspettavo, aggiunge ben più convinta un "pasta" e un prevedibile "buono".

Conclusasi la loro breve intervista ne approfitto per aver il favore ricambiato e faccio io qualche domanda a loro (in giapponese, così da interrompere una fatica già troppo a lungo prolungata per entrambi).

 

Come ho già detto, sono delle studentesse delle superiori di Osaka (a guardarle avrei scommesso fossero delle medie, ovviamente...), per l'esattezza di una scuola nel quartiere di Nanba e sono in una sorta di gita d'istruzione di un giorno a Kyoto: qui, accompagnate dai professori, visitano alcuni dei principali monumenti della città, ne ascoltano la storia e prendono appunti, visto che poi avranno da realizzare una sorta di tema di gruppo, su svariati argomenti.

Riguardo allo studio della lingua inglese, infatti, hanno ricevuto il compito di collezionare delle interviste a dei turisti, appunto in lingua inglese.

Dopo le presentazioni, passo subito al nocciolo della questione: com'è la loro vita da studentesse?

Tra sorrisi imbarazzati e sguardi complici mi dicono che è molto faticosa.

Ma siete felici? Vi riuscite a divertire? Questi anni di gioventù, sentite che li state vivendo bene?

Sembrano stupite da queste domande e, dopo un momento di iniziale titubanza, sempre guardandosi tra loro, come a cercare forza, coraggio ma soprattutto il conforto del gruppo, mi rispondono che anche se ogni giorno le lezioni, i compiti e l'approssimarsi degli esami rende le loro giornate molto impegnate e faticose, hanno anche tempo per divertirsi: tutto sommato si dicono felici.

 

Intendiamoci, intervistare un giapponese spesso e volentieri equivale a sentirsi rispondere con frasi prestabilite.
Il perché è presto detto, ma non in questa sede... attendete l´articolo apposito sulle interviste ai giapponesi.

 

Comunque, nel breve tempo che passiamo assieme, tento di scavare un po' sul livello della loro vita e della loro felicità: sorridono, divertite, e mi rassicurano di esser davvero felici e di divertirsi sempre molto.

Una di loro prende la parola e mi racconta che suo fratello maggiore a breve avrà gli esami di ammissione per l'università e quindi studia tantissimo, quasi non esce di casa.

Non rubo loro molto tempo, e quando, finalmente, assistiamo una coppia di occidentali, gliela indico e dico loro di non sprecare l´occasione. Sembrano quasi deluse: ci avevano preso gusto a farsi intervistare!

Le saluto, auguro loro di "impegnarsi" e le osservo mentre corrono ridendo e scambiandosi qualche commento: circondano allegre la coppia e sento la più spigliata delle tre esordire con un "Hello".

 

Che la vita dello studente giapponese non sia rose e fiori come nei manga è un dato di fatto che nessuno, credo, possa ignorare. Alcuni eventi estremamente tristi, come lo sporadico suicidarsi di qualche studente o i casi di ijime/bullismo hanno gettato un´oscura ombra su questa fase della vita giapponese, ma io credo che, come spesso accade, un limitato caso di negatività abbia generato una pessima visione che, ingigantendosi da sé e tramite l'ausilio di chi ha trovato la gallina dalle uova d'oro sul creare catastrofi anche dal nulla e venderle come scoop, sia finita totalmente fuori controllo, divenendo una visione falsata di questa vita.
Torno a casa, decidendo di scrivere questo articolo e, per strada, vedo altri studenti: alcuni che, stanchi, stanno tornando a casa, altri allegri e intenti a chiacchierare.
Quando arrivo nel mio quartiere passo davanti ai cancelli, ora chiusi, dell'Università e mi fermo a guardare l'architettonicamente delizioso istituto...

Ganbatte (simile al "ganbare" ma più gentile e delicato, una richiesta) ragazzi, voi siete il futuro di questo Paese.